La colonia penale dell’Isola di Capraia ha chiuso i battenti nel 1986, ma l’eco di quel periodo si sente ancora: nelle strutture abbandonate e in quelle in via di recupero, nella storia dell’isola e dei suoi abitanti. Il carcere ha portato lavoro e socialità. Nei ricordi di “chi c’era”, in quel periodo, sono ancora vivi tante immagini e ricordi. Paola, classe 1960, lavorava nella parte amministrativa del carcere.
Certo, ho lavorato nella colonia penale, ma… purtroppo per breve tempo. Fui la prima persona a ricevere la notizia della chiusura. Ero in ufficio, come impiegata, nella parte del convento di Sant’Antonio. Protocollavo la posta: fu un fonogramma a comunicare all’intera comunità, fatta di capraiesi, di militari e detenuti, che la colonia penale avrebbe chiuso.
Era l’estate del 1986 e, a settembre, la colonia penale chiuse davvero, dopo poco più di un secolo di vita.
La colonia aveva portato vita e lavoro, sull’isola. Non c’erano solo i capraiesi, quelli di generazione, ma anche i militari, le loro famiglie e i detenuti.
C’erano tantissime persone, tantissimi bambini…C’erano negozi e servizi che adesso non esistono più, come il macellaio, e persino il ferramenta. Se adesso Capraia è fatta di Porto e Paese, all’epoca la colonia era una realtà parallela con cui ci incrociavamo continuamente. La chiusura ha segnato una svolta, un’interruzione nella vita di tutti per come la conoscevamo.
Io conobbi mio marito, Beppe, in quel periodo. Era militare su in montagna, vicino alla Mortola. Quando era libero o finiva il turno, poteva scendere in Paese o al Porto, e così ci siamo conosciuti. Fu l’ultimo dei suoi colleghi ad andarsene dall’isola. Possiamo dire che siamo stati la prima e l’ultimo dei lavoratori della colonia – la prima a ricevere la notizia, l’ultimo ad andarsene.
Paola ha moltissimi ricordi di quegli anni, vivi più che mai adesso che Beppe non c’è più. La giovinezza, poi, tende a notare tutto, è tutto esperienza nuova.
Una delle prime immagini che ho della colonia sono i detenuti nel cortile del convento. Quando venivano da noi, essendo abituati a camminare in pochi metri di cella, mantenevano quel movimento avanti-indietro anche nel cortile, che pure era ampio. Avevano sempre una limitatezza di movimenti, cosa che, magari, non assoceresti alla vita su un’isola.
Lavorando la terra, creando muri a secco e pulendo nuovi e antichi sentieri, i detenuti vivevano un percorso. Un lavoro obbligato che riconnetteva l’uomo alla terra.
Oggi, passando davanti al convento di Sant’Antonio, Paola fa fatica a credere quanto sia in disuso.
Il cortile interno è stato restaurato recentemente, ma l’aspetto esterno è incredibile. Si intravede ancora la vecchia scritta “Aperto”, mangiata dalla salsedine, fra un mattone e l’altro, ed è una contraddizione bellissima, che solo in isole come Capraia si possono trovare.
Sono passati tanti anni, ma l’eco della vita portata dalla colonia ancora si sente – e si vede nelle strutture, che pian piano la nuova generazione sta recuperando, un muro a secco alla volta.
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